Un breve simpaticissimo racconto che ha per “protagonista” un bracciale. Quale miglior pensiero per la persona amata ? Date un’occhiata anche alle nostre collezioni di bracciali tennis … sempre bellissimi.
Il bracciale della Fedora
Era sempre di corsa, qualsiasi cosa facesse la faceva di fretta. Per via del suo maledetto lavoro, diceva lui, un lavoro che non gli permetteva mai di programmare gli interventi, perché gli interventi erano sempre delle emergenze, Diosanto. Mai una mattina che potesse sapere che cosa avrebbe fatto quel giorno, perché le cose da fare cambiavano di ora in ora. Un lavoro che tuttavia gli rendeva bene, ah di questo non si poteva certo lamentare: dieci o dodicimila euro al mese di entrate di cui, detratto il costo del suo apprendista e dell’affitto del magazzino, gliene rimanevano almeno settemila. Poi c’era l’Inps e le tasse, soprattutto l’Inps perché le tasse… beh insomma, col fisco ci si poteva arrangiare. Un po’ di nero, anzi parecchio nero, e delle tasse ci si poteva pure scordare. E così almeno cinquemila netti se li metteva ogni mese in saccoccia.
Arturo faceva l’idraulico, aveva iniziato a diciassette anni come apprendista e dopo un po’ si era messo in proprio. E ora che di anni ne faceva quarantasei aveva un’attività ben avviata e in quella cittadina della bassa lo cercavano tutti.
Anche quel giorno aveva tirato tardi correndo di qua e di là, aggiusta una pompa, sgorga uno scarico, salda i tubi, ripara i rubinetti, saltando da una casa all’altra. Si erano fatte le sei di pomeriggio e la giornata di lavoro era finita; lui però di tornare a casa sua non ne aveva ancora voglia. Nella sua testa occupata dalle preoccupazioni per il lavoro vagava, però, un piccolo pensiero che gli ricordava che, prima di rientrare a casa, doveva fare una cosa importante.
Già, ma che cosa?
Non se lo ricordava, e più si sforzava di ricordare più quella cosa che avrebbe dovuto fare si allontanava dalla mente fino a svanire come il fumo di una sigaretta che si dissolve nell’aria. Vabbè, pensò Arturo, se non mi ricordo di questa cosa vuol dire che non era poi così importante. Decise di chiudere subito baracca e burattini, perché aveva tutto il tempo per fare una visitina alla Fedora prima di rincasare. La voglia ce l’aveva da un paio di giorni e quanto al tempo, adesso aveva anche quello.
Ah la Fedora, che donna!
Madame Fedora, per i clienti fissi semplicemente Fedora, il cui nome secolare nessuno pareva conoscerlo, era una quarantenne che portava con superba signorilità i suoi anni: di media statura, aveva una massa di capelli biondi e ricci, un seno enorme del quale lei stessa raccontava di essersi trovata in prima fila il giorno in cui il Padreterno aveva distribuito le tette, un po’ di grasso sui fianchi e sulle cosce e anche sul sedere, è vero, ma, si sa, un po’ di ciccia da palpare fa sempre piacere; e portava, infine, una biancheria intima di ogni sfumatura di nero, tremendamente eccitante.
“Ma quale altra cosa avrei dovuto fare prima di rincasare?”
“Boh.”
Arturo parcheggiò l’auto sotto il portone della casa dove la Fedora riceveva, scese e suonò al citofono. L’etichetta a fianco del pulsante portava la scritta M.F. che stava, appunto, per Madame Fedora. Salì i gradini a due a due, pregustando ad ogni scalino quella montagna di carne da toccare e baciare, e quelle tette enormi dentro cui affondare il viso. Poi entrò.
Fu come tutte le altre volte, un tripudio dei sensi, un’esaltazione degli istinti primordiali, come un correre selvaggio di cinghiali nella notte, con la Fedora che, zitta, gli consentiva di fare di lei tutto ciò che lui voleva.
Alla fine si abbandonò, esausto, sul letto, mentre la Fedora si alzò dallo stesso talamo assai meno esausta e si chiuse nel bagno. La sua testa, ora, era vuota di pensieri e poteva finalmente rilassarsi. E fu proprio quella condizione di riposo della mente a fargli ricordare la cosa che avrebbe dovuto fare prima di rientrare a casa.
Oggesù, esclamò quasi a voce alta, oggi è il compleanno di Silvana! Si rizzò a sedere sul letto ancora pregno dell’odore della Fedora, e si coprì il volto con le mani. Il regalo per Silvana, ecco cosa dovevo ricordarmi di fare, di comprarle il regalo di compleanno.
Se n’era completamente dimenticato, e sapeva bene che non poteva permettersi di tornare a casa senza un regalino per la moglie, perché lei non glielo avrebbe mai perdonato, e per settimane, anzi per mesi, non avrebbe perso occasione per rinfacciarglielo.
Doveva rimediare al più presto, doveva fare qualcosa.
Già, ma che cosa?
Guardò l’orologio, le otto meno venti, maledizione a quest’ora i negozi sono chiusi. Il Centro commerciale era ancora aperto e non era distante, ma Arturo sapeva che in quel Centro commerciale non c’erano gioiellerie.
Si alzò e si rivestì di fretta, tanto per non cambiare le abitudini, doveva farsi venire a tutti i costi un’idea; mentre si infilava la giacca estrasse il portafoglio dal quale prelevò gli ottanta euro che erano il regalino per la Fedora, un prezzo di favore per un vecchio cliente come lui, e lasciò le banconote sul comodino.
E fu proprio lì che lo vide.
Un piccolo bracciale in oro bianco, con delle incisioni carine, come dei piccoli serpenti che andavano da un capo all’altro del monile. Lo prese e lo soppesò, che fosse oro non c’era dubbio, e pareva anche carino, sì insomma, un oggetto raffinato.
Non c’era tempo da perdere, la Fedora poteva rientrare dal bagno da un momento all’altro, si mise in tasca il braccialetto e gridò un saluto alla donna attraverso i vetri.
“Devo scappare, tesoro, ci rivedremo presto.”
Partì con l’auto a manetta e si diresse verso casa. Si sentiva soddisfatto e orgoglioso della pensata che aveva avuto; sua moglie Silvana sarebbe stata contenta del regalo.
Già, ma come glielo porto? pensò. Così, lo tiro fuori dalla tasca e glielo metto in mano?
No, non è possibile, ci vuole un pacchettino, o della carta regalo con cui avvolgerlo. Però a quest’ora pure le cartolerie sono chiuse. Era ormai giunto sotto casa sua, quando trovò l’unica soluzione possibile: strappò una pagina della Gazzetta dello sport che aveva lasciato sul sedile di fianco e con quella avvolse il braccialetto.
“Sono a casa, tesoro,” gridò alla moglie chiudendo la porta. La signora Silvana, una mora minuta e carina, coetanea del marito, comparve indossando un vestitino corto da sera.
“Ti piace?” disse al suo sposo facendo due giri su se stessa, “me lo sono regalata oggi per il mio compleanno. Perché lo sai che oggi è il mio compleanno, vero?”
“E come potrei dimenticarmene, tesoro mio? Ti ho preso anche un regalino speciale,” le rispose lui compiaciuto, mentre le porgeva la carta rosa del giornale, tutta stropicciata.
Silvana prese l’involucro, se così si può definire, dalle mani del marito e riuscì a leggere qualcosa, tipo che Vettel aveva vinto il Gran… “Che cos’è” esclamò con aria delusa, “il biglietto d’ingresso per il Gran Premio di Monza?”
“Ma no, cara, è solo che era molto tardi quando l’ho comprato, la gioielleria stava chiudendo e il proprietario mi ha detto che aveva finito l’ultimo rotolo di carta da regalo. Oh, sapessi quanto si è scusato, non la finiva più di chiedermi scusa, e alla fine ho deciso di avvolgere il bracciale nella carta da giornale; non potevo fare nient’altro.”
La signora Silvana guardò il marito con la stessa espressione con cui si guarda un ambulante marocchino che ti vuole vendere un paio di occhiali da sole da cinque euro giurandoti che sono Ray Ban. Il suo sconcerto, tuttavia, sparì lasciando il posto alla meraviglia quando sgrovigliò la Gazzetta e le apparve il gioiello.
“Ma caro, è… è stupendo! E’ decisamente carino, e anche molto raffinato. Mi piace, mi piace davvero tanto. Grazie.” E gli schioccò due baci sulle guance.
“Tanti auguri, tesoro. E per stasera che hai deciso? Usciamo a cena?”
“No, ho avuto un’altra idea, ho invitato a cena da noi mia sorella e suo marito. Ho cucinato un brasato al barolo con le patatine al forno, che a te piacciono tanto.”
Arturo deglutì senza proferire parola, e soprattutto senza esternare il suo disappunto; non gradiva molto Assunta, la sorella della moglie, ma ancor meno suo marito. Il ragionier Giuseppe Rusconi, suo cognato, chiamato in famiglia, ma rigorosamente in sua assenza, paso doble per via di una leggera zoppia, conseguenza di una polio avuta da bambino, era un cinquantenne che, pur in possesso di una voglia di lavorare da saltami addosso, come si usava dire da quelle parti, aveva fatto una discreta carriera in una sede locale di una banca nazionale. La sua progressione di carriera era stata direttamente proporzionale alla crescita di arroganza e di supponenza.
Non ebbe neppure il tempo di metabolizzare la delusione per la serata che si prospettava, che suonarono alla porta. Erano loro, i cognati. Baci e abbracci, tanti tanti auguri, scambio di regalini, e alla fine di tutto salutarono anche Arturo.
“Allora, cara sorella, che ti ha regalato di bello il tuo maritino?” chiese Assunta alla festeggiata.
“Oh, quest’anno Arturo ha superato se stesso,” rispose Silvana, “guardate qui, guardate che magnifico braccialetto mi ha regalato.” E mentre esibiva il monile, con un piede scacciava la carta della Gazzetta fino a occultarla sotto il divano.
“Bello, molto bello davvero,” fu il commento di Assunta, ma le sue parole erano incerte, accompagnate da un’espressione dubbiosa, come se nel guardare il bracciale stesse in realtà pensando ad altro.
E infatti di lì a poco riprese, rivolgendosi al marito. “Giuseppe guarda, questo braccialetto è identico a quello che avevo io, ricordi? Ma sì, quello che da un paio di mesi non riesco più a trovare da nessuna parte.”
Per una volta, Giuseppe non parve presuntuoso come suo solito, anzi sembrava titubante.
“Fa un po’ vedere. No, cara ti sbagli, il tuo bracciale era molto diverso da questo, era più… più bello… sì insomma, non somigliava per niente a questo.”
“Che cavolo dici? Ma se è identico? Forse tu non l’hai mai guardato bene, anche se sei stato proprio tu a regalarmelo per il nostro anniversario, ma probabilmente non ti ricordi neppure di questo. L’ho cercato per mare e per terra il mio braccialetto, ma sembra che si sia volatilizzato.”
Poi Assunta girò e rigirò il monile, e d’improvviso i suoi occhi si spalancarono per la sorpresa. “Guarda qui, Giuseppe, ti ricordi che una volta mi era caduto per terra e si era prodotta un’ammaccatura minuta, quasi invisibile? E questa che cos’è? E’ una piccolissima ammaccatura ed è proprio nello stesso punto di quella del mio bracciale, sul gancetto di chiusura.”
Stavolta Giuseppe sembrava decisamente imbarazzato, inforcò gli occhiali, anche per prendere tempo, e visionò il punto del bracciale di Silvana su cui la moglie aveva notato qualcosa: vide, in effetti, un piccolo segno, una scalfittura appena accennata.
“Ti sbagli, tesoro, il tuo braccialetto aveva sì un piccolo segno per via che l’hai fatto cadere, ma non era in questo punto, era sul rovescio” disse giocando la sua carta difensiva.
“Eppure a me sembra proprio questo…” proseguì Assunta, ma la sua convinzione andava scemando.
Fu Silvana a porre fine a quella piccola disputa, sentenziando: “Beh, questo braccialetto è mio, me l’ha regalato mio marito. Sarà anche simile a quello che aveva tu, cara sorella, ma questo è mio. E ora facciamola finita, tutti a tavola che la cena è pronta.”
Mangiarono avidamente l’ottimo brasato, accompagnato da una barbera d’annata, e chiacchierarono d’ogni argomento, di sport, di soldi, dei figli e di politica. Di tutto tranne che del bracciale, questione che restò confinata nelle teste di Arturo e di suo cognato Giuseppe.
Terminata la cena, le due sorelle si ritirarono in cucina per proseguire la chiacchierata con argomenti meramente femminili, e attorno alla tavola restarono, soli, i due cognati.
Nessuno parlò del braccialetto, tanta era la paura di dover dare spiegazioni poco opportune, Arturo si limitò a guardare negli occhi il cognato. Lo fissò, muto, con uno sguardo interrogativo, mentre agitava la mano con le quattro dita allungate e premute dal pollice. Giuseppe allargò le braccia, pure lui muto, inarcò le sopracciglia e chiuse per un istante le palpebre.
Disse soltanto: “pensavi di essere il solo a conoscere la Fedora?”